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Le ricerche di Gerona 2005

(03-12-13) Meno farmaci contro il colesterolo Si punta su dieta e attività fisica


Le linee guida Usa rivedono i rapporti con le malattie cardiache: i grassi nel sangue fanno meno paura
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Il messaggio dei cardiologi americani è chiaro: non dobbiamo più «curare il colesterolo, ma i pazienti», e preoccuparci del rischio reale che una persona vada incontro a infarto o ictus quando il livello dei suoi grassi nel sangue è troppo elevato.
Negli Stati Uniti sono state appena pubblicate nuove linee guida che cambiano la strategia di prevenzione della malattie cardiovascolari (il colesterolo, infatti, rappresenta un fattore predisponente, insieme a molti altri). Secondo questo nuovo approccio, i pazienti vengono divisi in due gruppi: quelli che hanno già avuto problemi cardiovascolari e quelli che hanno il colesterolo alto, ma non hanno disturbi.
Nel primo gruppo il suggerimento è comunque quello di somministrare statine (i più usati farmaci anti colesterolo) alle dosi indicate dagli studi clinici. E questa si chiama prevenzione secondaria. Nell’altro caso (che si chiama prevenzione primaria, che vuole cioè impedire che una patologia si manifesti) la situazione si complica e cominciano i distinguo: il colesterolo, infatti, non è una malattia, ma solo un marcatore, cioè una spia di pericolo che va valutata tenendo conto della situazione complessiva, caso per caso. E poi di «colesterolo» ne esistono due tipi: l’Ldl, il cosiddetto colesterolo «cattivo» il cui livello ideale nel sangue dovrebbe essere inferiore ai 130 milligrammi per decilitro (mg/dl) di sangue, e l’Hdl, quello «buono» che dovrebbe essere superiore ai 60.
Ecco allora che gli americani suggeriscono di mettere in terapia farmacologica persone con più di 21 anni che hanno l’Ldl al di sopra di 190 mg/dl (sono quelli in cui l’aumento di questa sostanza ha cause genetiche), i soggetti diabetici e tutti coloro che hanno una probabilità di andare incontro a problemi cardiovascolari perché hanno altri fattori di rischio: il fumo, la pressione arteriosa elevata o una ridotta presenza di Hdl.
In tutti gli altri casi, come si dice «borderline» o di confine, che non rientrano in queste categorie, il suggerimento è quello di ricorrere ad altri sistemi per ridurre il colesterolo, come la dieta o l’attività fisica.
Le nuove linee guida americane hanno il pregio di rimettere in prima linea la clinica (cioè il paziente) e, in seconda, il laboratorio (e cioè il livello del colesterolo nel sangue). E potranno anche avere delle ripercussioni in Europa, dove, però, la situazione è un po’ diversa. Per esempio, secondo le linee guida europee i pazienti che hanno avuto incidenti cardiovascolari vengono messi in terapia quando hanno valori di colesterolo più alti rispetto a quelli previsti dagli americani: noi, cioè, siamo un po’ meno aggressivi sulla terapia.
«Anche le nostre regole guardano ai valori di laboratorio - commenta Cesare Sirtori, direttore del Centro Dislipidemie dell’Azienda Ospedaliera Niguarda Ca’ Granda di Milano - ma noi siamo da sempre più attenti ai pazienti».
Insomma, lo «spettro colesterolo» assume nuove connotazioni e viene reinterpretato dalla clinica. Forse si è anche esagerato nel propagandarlo come il «nemico numero uno per la nostra salute cardiovascolare».
E si ha anche la sensazione che l’atteggiamento aggressivo del passato nei confronti di questa condizione clinica (terapia a tutti i costi per ridurre i «valori bersaglio» dei test di laboratorio) sia stata dettata più da interessi commerciali di chi voleva vendere farmaci che da serene valutazioni cliniche. Ora che molte medicine hanno perduto il brevetto, si ritorna a scelte più ragionate. «Noi cerchiamo anche di prendere in considerazione elementi - aggiunge Sirtori - che gli americani hanno trascurato. Per esempio: anche i trigliceridi hanno la loro importanza. E ci sono anche altri farmaci che possono essere utili per ridurre colesterolo e trigliceridi che gli americani hanno ignorato nelle loro linee guida».

Fonte: www.corriere.it

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