(04-07-14) Contrordine: i grassi saturi non hanno colpe. Un articolo del Times li scagiona dall’accusa di favorire obesità, diabete
Contrordine: i grassi saturi non hanno colpe. Un articolo del Times li scagiona dall’accusa di favorire obesità, diabete e malattie cardiovascolari
Pubblicato da Valentina Murelli il 25 giugno 2014
Primissimo piano di un formaggio tipo emmental. In corrispondenza dei “buchi”, i nomi di alcune delle malattie e condizioni più diffuse nel mondo industrializzato: diabete, obesità, infarto, colesterolo alto, ostruzione delle arterie. Nel mezzo una scritta a caratteri cubitali: «Non incolpate il grasso». È la pagina di apertura di un articolo sul numero del 23 giugno della rivista americana Time, ripreso anche in copertina con l’invito a mangiare burro e un sottotitolo decisamente esplicito: «Gli scienziati hanno classificato il grasso come un nemico. Ecco perché hanno sbagliato». In effetti l’articolo, a firma del giornalista Bryan Walsh, tenta un’operazione complessa: la riabilitazione dei grassi alimentari, in particolare quelli saturi, presenti soprattutto nei prodotti di origine animale (latte intero, latticini e carni grasse), dopo quarant’anni di guerra senza quartiere combattuta a colpi di prodotti light e diete low-fat.
La storia raccontata da Walsh si svolge negli Stati Uniti (anche se molte saranno le ripercussioni nel resto del mondo) a partire dalla fine degli anni cinquanta, quando gli studi del fisiologo Ancel Keys cominciano a suggerire che esista una correlazione tra consumo di grassi saturi e aumento del rischio di insorgenza di malattie o eventi cardiovascolari, come l’infarto. Le prese di posizione ufficiali non tardano ad arrivare: nel 1961 l’American Heart Association suggerisce agli americani di tagliare i grassi saturi. Nel 1977 un documento del Senato indica i seguenti obiettivi nutrizionali per gli Stati Uniti: meno carne rossa, uova e latticini, più frutta, verdura e carboidrati. E sempre nello stesso anno arrivano le linee guida del Dipartimento dell’agricoltura e le raccomandazioni dei National Institues of Health, tutti d’accordo nell’invocare una riduzione di grassi e colesterolo.
La comunità scientifica in realtà non è unanime: l’allora presidente della National Academy of Sciences, per esempio, è scettico e parla di un «vasto esperimento nutrizionale», ma la battaglia contro i grassi è ormai cominciata e l’industria alimentare si muove di conseguenza, promuovendo i primi prodotti a basso contenuto di grassi. Anche le abitudini alimentari degli americani cominciano a cambiare: via uova, latte intero, formaggi, per far posto a latte scremato, alimenti light e cibi ricchi di carboidrati, come pane, pasta, crackers, biscotti. «Quarant’anni dopo – scrive Walsh – abbiamo i risultati dell’esperimento ed è stato un un fallimento. Abbiamo tagliato i grassi, ma gli americani sono più malati che mai». Il riferimento è a quelle che ormai sono diventate vere e proprie epidemie: obesità, diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari.
Che cosa è andato storto? Anzitutto c’è il fatto che, tolti di mezzo i grassi, li si è dovuti sostituire con qualcos’altro. «In nutrizione non esiste il concetto di eliminazione e basta: se si toglie un nutriente, bisogna sostituirlo» commenta Enzo Spisni, docente di fisiologia della nutrizione all’Università di Bologna. E quindi gli alimenti ricchi di grassi saturi hanno ceduto il passo ad alimenti ricchi di carboidrati raffinati, che però saziano meno, inducendo a mangiare di più. Senza contare che proprio i carboidrati raffinati hanno un ruolo non indifferente in processi metabolici che possono portare a obesità e a diabete. Le cifre di questo scambio sono importanti: come ricorda Walsh, mentre dal 1971 al 2000 diminuiva nella dieta degli americani la percentuale di calorie derivata dai grassi, quella derivata dai carboidrati aumentava del 15%. E nello stesso periodo aumentava anche la quota calorica procapite.
L’altro aspetto su cui insiste Walsh riguarda la presunta pericolosità dei grassi. Nel tempo abbiamo imparato a distinguere due grandi categorie: i grassi insaturi, contenuti nel pesce o nell’olio di oliva, considerati “buoni” perché riducono il rischio cardiovascolare, e quelli saturi, bollati come “cattivi” perché quel rischio lo aumenterebbero. Ora, però, alcuni studi – per la verità in parte ancora controversi – sembrano ridimensionare questa pessima responsabilità. «Una meta-analisi, cioè uno studio di altri studi, pubblicata nel 2010, conclude che non ci sono evidenze significative che i grassi saturi siano associati a un aumento del rischio cardiovascolare» sottolinea Walsh. E se il Time ha deciso di occuparsi dell’argomento, possiamo star certi che un tentativo di riabilitazione dei grassi è in corso davvero.
Il che però non significa che da domani possiamo dimenticare tutto quello che ci hanno detto finora gli esperti di nutrizione e infarcire di burro ogni panino che addentiamo. «Le raccomandazioni contenute nelle Linee guida per una sana alimentazione italiana rimangono valide» commenta Spisni. «I grassi saturi non dovrebbero apportare più del 7-10% delle calorie totali della dieta quotidiana». Anche perché si trovano in alimenti, in primis la carne, che sarebbe bene limitare per ragioni ecologiche, oltre che di salute.
Non cambia niente, allora? Non proprio, perché in tutta questa vicenda un insegnamento c’è, ed è che non bisognerebbe demonizzare niente. «La scienza della nutrizione è una disciplina molto complessa, in cui rientrano tantissimi aspetti ed è difficile trovare qualcosa che faccia bene o male in modo assoluto» spiega Spisni. «Una condizione come l’obesità non dipende solo dalla quantità di grassi saturi che si assumono: ci sono tanti altri fattori in gioco, dal fatto che la nostra vita e quella dei nostri bambini sono diventate molto più sedentarie, alla diffusione a tappeto dei cibi spazzatura (come quelli che si trovano nei fast food)». Demonizzare, però, è umano, perché ci dà l’illusione che basti poco – per esempio scegliere la versione light di un formaggio o di una patatina – per vivere meglio e più a lungo. Siamo sempre alla ricerca dell’alimento perfetto, che non può esistere, mentre i trucchi per una dieta sana sono altri e sono comunque semplici: moderazione e varietà. È chiaro che se una bibita contiene l’equivalente di oltre 10 bustine di zucchero (come le classiche bibite gasate e zuccherate) sarà meglio consumarla solo molto raramente, ma è altrettanto chiaro che un cucchiaino di zucchero ogni tanto non uccide. «Non ha alcun senso eliminare del tutto un certo alimento e poi ridursi a mangiare le solite tre cose per tutta la vita, come spesso vedo fare» commenta l’esperto. Senza esagerare e cambiando spesso menu, si può davvero mangiare un po’ di tutto.
Fonte: Valentina Murelli-ilfattoalimentare.it
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