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Le ricerche di Gerona 2005

(19-10-14) Studio Usa, troppi farmaci se ipertensione è lieve




Il 40% della popolazione adulta nel mondo risulta iperteso, ma circa metà dei
casi è classificata come “mild”, lieve, e metà di questi anche se considerati a
basso rischio, poiché non hanno malattie cardiovascolari, diabete o patologie
renali, sono comunque trattati con farmaci. Con un notevole dispendio di
risorse sanitarie. A sollevare la critica a questa pratica clinica è Stephen
Martin, sulla base di dati emersi da un’indagine da lui condotta assieme ai
colleghi della Oxford University e della Massachusetts medical school di
Worcester e presentata alla Preventing overdiagnosis conference svoltasi a
Oxford in partnership con la campagna del Briitish medical journal “Too Much
Medicine”. Il sollecito da parte dei ricercatori è di riesaminare la soglia di
valori sopra la quale avviare il trattamento, poiché, a loro avviso, negli anni
è stata gradualmente abbassata con l’obiettivo di ridurre la mortalità
cardiovascolare. Ma stando ai loro dati, nei casi “mild” a basso rischio, il
trattamento con farmaci non ha dimostrato di ridurre il rischio di malattie
cardiovascolari o di morte. Negli Usa, in particolare, il costo del trattamento
farmacologico dei casi lievi è stato stimato a 32 miliardi dollari (24 miliardi
di euro) l'anno. Gli autori sostengono che l'eccessiva enfasi sul trattamento
farmacologico «è a rischio di effetti collaterali, come l'aumento del rischio
di cadute, non stimola i pazienti a modificare le scelte di vita e affrontare i
fattori di stile di vita ad un livello di salute pubblica». Esprime perplessità
Massimo Volpe, Presidente della Società italiana dell’ipertensione arteriosa
(Siia), in generale su tutta una tipologia di studi «che tentano più che altro
di avere una ricaduta mediatica senza dire sostanzialmente nulla di nuovo». In
effetti, i pazienti che stanno nella fascia di pressione alto-normale, tra 130
e 140 possono non avere un beneficio dalla terapia farmacologica, dice Volpe:
«È un fatto noto e nemmeno particolarmente nuovo, visto che già qualche anno fa
una revisione della letteratura della Cochrane non aveva rilevato nessuna
evidenza di riduzione di morbidità e mortalità». Ma è completamente diverso il
caso di pazienti con valori pressori superiori ai 140. «In questi casi - spiega
il presidente Siia - tutti i dati epidemiologici mostrano una maggiore
incidenza di infarti, ictus, scompensi cardiaci e fibrillazioni atriali. Per
motivi etici non si possono condurre studi contro placebo, ma gli studi di
intervento confermano che, quando si riesce a controllare la pressione, il
numero di eventi è molto basso». Ma non si potrebbe intervenire sugli stili di
vita? «Per pazienti con valori tra il 140 e i 150 è certamente il primo
intervento, ma se dopo qualche mese la pressione non si normalizza, occorre
obbligatoriamente ricorrere ai farmaci. Bisogna poi ricordare che, con l’
eccezione di alcuni sottogruppi di pazienti, in genere gli interventi sugli
stili di vita sono poco efficaci, mentre per fortuna oggi abbiamo farmaci molto
efficaci, molto ben tollerati e poco costosi».

Fonte: doctornews33

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