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Le ricerche di Gerona 2005

(26-08-15) Trauma cranico, attenzione ai contatti di testa quando si gioca a calcio





Secondo uno studio appena pubblicato su Jama pediatrics, tra i ragazzi e le ragazze che giocano a pallone nelle scuole superiori statunitensi il modo più comune per subire un trauma cranico è il contatto con un altro giocatore, mentre il colpo di testa è l'attività più comune, specifica del calcio, in cui circa un terzo dei ragazzi e un quarto delle ragazze riporta una commozione cerebrale. Il calcio, soccer in Usa, è aumentato in popolarità oltreoceano negli ultimi tre decenni: nella stagione 1969-1970 c'erano 2.217 scuole nordamericane che schieravano 49.593 ragazzi e nessuna ragazza, mentre nel 2013-2014 oltre 11.000 licei hanno messo in campo 417.419 giocatori e 375.564 giocatrici. Così Dawn Comstockdella Colorado school of public health di Aurora e i coautori dall'articolo hanno analizzato i dati raccolti nelle stagioni dal 2005 al 2014 su un campione rappresentativo a livello nazionale di liceali statunitensi di entrambi i generi che giocavano a soccer. «Lo scopo era di esaminare quali fossero le variazioni temporali di frequenza delle commozioni cerebrali, cercando di capirne i meccanismi e le attività più a rischio specifiche del calcio» spiegano i ricercatori, precisando che tra le ragazze si sono verificate 627 commozioni cerebrali nel corso di quasi 1,4 milioni di partite svolte da tutte le atlete, con un tasso di 4,5 traumi per 10.000 esposizioni. Tra i ragazzi, invece, il tasso di traumi cranici era basso: 2,78 per 10.000 esposizioni. E a conti fatti i ricercatori hanno scoperto che il contatto tra due o più giocatori era il modo più comune di procurarsi un trauma cranico nei ragazzi e nelle ragazze, e che l'attività più a rischio specifica del soccer era il colpo di testa. «In termini di prevenzione dei traumi cranici in campo, è poco probabile che vietare di colpire la palla di testa abbia un'influenza sul contatto tra giocatori, a meno che tale divieto non si associ allo sforzo di ridurre il contatto tra atleti durante tutta la partita» conclude Comstock.

FONTI:
JAMA Pediatr. 2015. doi:10.1001/jamapediatrics.2015.1062
doctornews33

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