(26-10-15) Il sonno aiuta il sistema immunitario a ricordare i microrganismi così da potersi difendere meglio in futuro
Lo stesso meccanismo usato dal cervello per immagazzinare i ricordi serve a riconoscere gli agenti patogeni la seconda volta che si ripresentano Riposare quando si ha un’infezione aiuta a combattere il nemico del momento e servirà anche a reagire più prontamente quando dei microrganismi patogeni simili ci attaccheranno in futuro. Una bella dormita, infatti, consente di fissare meglio i ricordi. Non solo quelli psicologici, che conserviamo nel cervello. Anche quelli immunologici, che immagazziniamo nel sistema di difesa del nostro organismo.
COME SI IMMAGAZZINANO I RICORDI
Nonostante le evidenti differenze, il sistema nervoso centrale e quello immunitario hanno una cosa in comune: sono dotati di una capacità di immagazzinamento troppo limitata per contenere separatamente tutte le informazioni che si accumulano. Deve essere per questo che hanno evoluto strategie analoghe: in entrambi i sistemi la memoria viene prima codificata in un deposito temporaneo, poi trasferita in un archivio a lungo termine e infine ridotta alle sue componenti astratte essenziali, in modo da poterla riutilizzare in futuro anche in situazioni un po’ diverse. Questo processo di consolidamento mnemonico sarebbe favorito dal sonno, probabilmente attraverso la riduzione del rilascio dell’ormone cortisolo.
LA MEMORIA IMMUNITARIA
Lo suggeriscono alcuni studi che hanno osservato, nelle notti successive alla vaccinazione, le reazioni immunitarie dei soggetti immunizzati. A giovare sarebbe soprattutto il sonno profondo, quello che in gergo viene detto “a onde lente”, come spiega una rassegna pubblicata su Trends in Neurosciences da Jan Born dell’Università di Tubinga insieme ad altri studiosi tedeschi. Pensate a un microrganismo che si fa strada nel corpo del suo ospite, passando attraverso la pelle, i polmoni o l’intestino. La prima linea di difesa è costituita dalle cellule dell’immunità innata, che cercano di fermarlo con meccanismi come l’infiammazione e la fagocitosi. Se questo non basta si attivano altre cellule dette APC, che spezzettano i componenti del microrganismo e li espongono sulla propria superficie per alcune ore, come una sorta di memoria a breve termine. A consolidare il ricordo immunitario per mesi e anni è un altro tipo di cellule, i linfociti T. Possono riconoscere centinaia di dettagli di un microrganismo ma rispondono solo a quelli dominanti, che sono in numero molto minore.
INFORMAZIONI UTILI A FUTURI VACCINI
Ecco dunque che si verifica una sorta di schematizzazione della memoria immunitaria. Un po’ come accade nel cervello quando i ricordi psicologici vengono dapprima immagazzinati nell’ippocampo e poi si ridistribuiscono nella neocorteccia, dove diverse rappresentazioni vengono schematizzate in una forma più astratta. Fatto sta che, se dopo qualche tempo si verifica una seconda infezione, il sistema immunitario è già istruito e pronto a scattare. Per alcune malattie (come il morbillo) una singola esposizione può conferire una protezione immunitaria che dura tutta la vita. La speranza di Born e colleghi è che sviluppando un modello affidabile della memoria immunitaria si possa contribuire alla progettazione di vaccini efficaci per patogeni ancora refrattari all’immunizzazione, come Hiv e malaria.
Fonti:
Anna Meldolesi
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