(10-02-16) Allattamento al seno: enormi vantaggi per la salute della madre, del figlio e del portafoglio
Fabio Di Todaro 29 gennaio 2016
L’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che le donne dovrebbero allattare i propri figli al seno in maniera esclusiva per i primi sei mesi, per poi passare all’integrazione con alimenti complementari. La “convivenza” dovrebbe andare avanti almeno fino al compimento del primo anno di vita ed eventualmente oltre, secondo quelle che sono le esigenze manifestate dalla mamma e dal proprio figlio. Oggi è quasi un’utopia. Nei Paesi occidentali solo un bambino su cinque assume il latte materno a distanza di un anno dalla nascita. Dati che, come svelato dall’Istat nel 2013, riguardano anche l’Italia. Nel nostro Paese la durata media dell’allattamento al seno ammonta a otto mesi, mentre il periodo esclusivo equivale alla metà. Ai due estremi la provincia di Trento (cinque mesi) e la Sicilia (tre mesi e mezzo) (vedi articolo).
Di fronte a questa situazione secondo la rivista è legittimo pensare che siano «ancora poco chiari i benefici apportati dall’allattamento al seno, alla donna e al bambino». The Lancet, ha ricostruito la mappa mondiale della pratica. Ventotto le revisioni di studi prese in esame – 22 realizzate ex-novo, più di 1.300 i documenti passati in rassegna – da cui è emerso che «se l’allattamento al seno si diffondesse in maniera omogenea su tutto il pianeta, si potrebbero evitare le morti di ottocentomila bambini, pari al 13 per cento di tutti quelli che muoiono entro i due anni, e di ventimila donne affette da tumore al seno ogni anno». I benefici della pratica sono stati evidenziati nel tempo, attraverso gli studi epidemiologici. Per i bambini: ridotta suscettibilità e mortalità alle infezioni (intestinali e del tratto respiratorio), ridotti tassi di malocclusione dentale, quoziente intellettivo più alto, minori chance di essere in sovrappeso o obesi da adulti. Per le donne invece ci sono prove che l’aver allattato un figlio al seno per un tempo sufficiente riduca il rischio di ammalarsi di tumore al seno, alle ovaie, diabete di tipo 2 e osteoporosi.
Ciò che è emerso in maniera chiara dal dossier è che la durata dell’allattamento al seno è più breve nei Paesi occidentali rispetto a quanto accade in quelli a basso reddito. Tra la Gran Bretagna e la Danimarca la quota di donne che sta ancora allattando a un anno di distanza dal parto oscilla tra l’uno e il tre per cento. Mentre supera il novanta per cento in Ciad (90,4) nella Repubblica Centroafricana (90,9), in Costa d’Avorio (92,1), Afghanistan (94,3), Repubblica Democratica del Congo (95,6), Eritrea (96,3), Burundi (96,4), Bangladesh (97), Burkina Faso (97,2), Etiopia (97,3) e Gambia (98,7). Tutte realtà dove, spesso anche oltre il previsto, il latte materno rappresenta l’unica fonte di sostentamento per i bambini. Ma se non ci fosse «il divario tra realtà ricche e Paesi in via di sviluppo, in termini di sopravvivenza infantile, sarebbe ancora più ampio», afferma Cesar Victora, professore emerito di epidemiologia e coordinatore del Centro internazionale per l’equità nella salute all’Università di Pelotas (Brasile). Continua dunque a essere trascurata «una delle più efficaci misure sanitarie preventive, per la mamma e per il proprio figlio».
Negli anni scorsi pure Michelle Obama, nel tentativo di ridurre la portata dell’obesità infantile negli Stati Uniti (leggi articolo), aveva puntato sulla promozione dell’allattamento al seno. Dall’ultima analisi emergono anche diversi benefici economici che dovrebbero spingere tutti i governi a puntare senza mezzi termini sulla pratica. Secondo le stime di Keith Hansen, vicepresidente della Banca Mondiale con delega allo sviluppo umano e autore di un commento apparso sulla stessa rivista, il mancato rispetto delle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha portato i Paesi ad alto reddito a perdere oltre 231 miliardi di dollari nel 2012. «Oltre che contro la malattia, la povertà e la morte, l’allattamento al seno rappresenta un investimento sulla salute fisica, cognitiva e sulla capacità sociale nel tempo». Qualcosa che, se non esistesse e fosse scoperta oggi, «porterebbe a due premi Nobel: uno per la medicina e l’altro per l’economia».
Per spiegare i dati finora riassunti, è necessario parlare anche dei sostituti del latte materno. Dal 1981 il Codice internazionale sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno, sottoscritto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’Unicef, vieta la prescrizione di latte artificiale alla dimissione dopo il parto. Quanto all’Italia, la circolare 16 del 24 ottobre 2000, emessa dall’allora ministro della Sanità Umberto Veronesi, ricorda che «al momento della dimissione non devono essere forniti in omaggio prodotti o materiale in grado di interferire in qualunque modo con l’allattamento al seno. Le stesse lettere di dimissioni per i neonati non devono prevedere uno spazio predefinito per la prescrizione del sostituto del latte materno equiparandolo a una prescrizione obbligatoria». Ma nel tempo le maglie dei controlli si sono allentate (leggi articolo) e hanno favorito la diffusione di prodotti che, volutamente accostati nelle caratteristiche al latte materno, minano qualsiasi iniziativa che punti ad accrescere i tassi di adesione all’allattamento al seno. Entro il 2019 il mercato dei sostituti del latte materno porterà nelle tasche di poche multinazionali (Nestlé, Milco, Nutricia, Milupa, Humana, Abbott Nutrition, Plasmon, Mellin, Mead Johnson e Wyeth) qualcosa come 70,6 miliardi di dollari per anno (44 miliardi di dollari i profitti sviluppati nel 2014). Ma se finora il target è stato rappresentato soprattutto dai Paesi agiati, «quasi tutta la crescita nei prossimi anni si registrerà nelle realtà a medio e basso reddito», denuncia Nigel Rollins, membro del dipartimento di salute materna, dei neonati, dei bambini e degli adolescenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. «In Africa e in Medio Oriente il mercato crescerà del sette per cento nei prossimi tre anni». Una tendenza simile a quella già registrata dall’industria del tabacco e a cui punta pure l’industria delle bevande alcoliche
Fonte: https://www.facebook.com/Il-Fatto-Alimentare-168190229904123/?fref=nf
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