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Le ricerche di Gerona 2005

(08-12-11) Antibiotici nell'alimentazione animale da bandire



Due ricercatori della Tufts university School of medicine di Boston (Usa),
Bonnie M. Marshall e Stuart B. Levy, affrontano, attraverso una revisione
critica della letteratura, il problema dell'utilizzo degli antibiotici
nell'alimentazione degli animali da allevamento a scopo non terapeutico ma
principalmente per favorirne la crescita: uso indicato come una tra le
principali cause dell'antibioticoresistenza. Gli autori riportano stime secondo
cui l'utilizzo non terapeutico ? otto volte superiore alla somministrazione
effettuata allo scopo di curare animali ammalati. Nel lungo termine, si crea un
ambiente ottimale che consente ai geni resistenti agli antibiotici di
moltiplicarsi. ?Fondamentalmente? si riporta nello studio ?gli animali si
trasformano in "fabbriche" per la produzione e distribuzione di batteri
resistenti agli antibiotici, come la Salmonella e l'Mrsa, ossia lo Stafilococco
aureo meticillino-resistente?. L'antibioticoresistenza si pu? trasferire ad
altri batteri e, anche se gli allevatori non utilizzano farmaci abitualmente
usati per l'uomo, alla lunga si produce comunque un fenomeno di resistenza.
Diversi studi citati nella revisione dimostrano che questi batteri passano
facilmente dagli animali agli uomini con cui sono strettamente a contatto, come
veterinari o allevatori, e poi alle loro famiglie. Il 90% degli antibiotici
somministrati agli animali finisce nell'ambiente e la resistenza si diffonde
direttamente per contatto oppure in via indiretta, attraverso l'acqua, l'aria e
la catena alimentare. Nel proporre un bando all'utilizzo degli antibiotici
nell'alimentazione degli animali, gli autori della ricerca ricordano le gravi
conseguenze della progressiva estensione del fenomeno. Solo negli Usa, i costi
per combattere infezioni antibioticoresistenti sono calcolati in 20 miliardi di
dollari all'anno, pi? altri 8 ascrivibili ai costi aggiuntivi di
ospedalizzazione. Senza contare le ben pi? gravi sofferenze che ne derivano ai
pazienti.

Fonte: Clin Microbiol Rev, 2011; 24(4):718-33


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